sabato 2 giugno 2012

Trauma e memoria del trauma

Questo articolo tratta l’argomento della memoria del trauma e, nel particolare, di quei processi che possono, eventualmente, favorirne l’amnesia. Dopo un’iniziale introduzione su cosa si intenda per “trauma” e sui principali fattori che ne possono determinarne la reazione, l’articolo si focalizza sul funzionamento della coscienza (e della memoria in particolare) e sul modo in cui, reagendo all’esperienza traumatica, possa svilupparsi un’amnesia attraverso il meccanismo della dissociazione. L’ultima parte dell’articolo prende in considerazione il processo di reintegrazione dell’esperienza traumatica nella memoria autobiografica, il senso che questo processo svolge in psicoterapia ed il ruolo che l’ipnosi può avere nel favorirlo. 
Quando si parla di trauma psicologico, ci si riferisce alle manifestazioni psichiche di un’esperienza particolarmente negativa (in una circostanza, ambito o relazione) da cui derivano una disorganizzazione e una disregolazione del sistema psicobiologico della persona. 

Il trauma psicologico è una reazione psichica – da intendere come una ferita causata da un fattore traumatico (stressor) – che comporta primariamente l’essere sopraffatti da emozioni molto dolorose e intollerabili, e tutto il coinvolgimento della persona per poterle gestire. Generalmente le manifestazioni psicopatologiche di un’esperienza traumatica possono derivare da ognuno o da entrambi i seguenti stressor: 

- da un evento stressante di natura violenta (morte, lesioni, minacce all’integrità fisica e psicologica)
- da una serie di microtraumi relazionali avvenuti nelle prime fasi dello sviluppo emotivo (separazioni precoci, maltrattamento, trascuratezza psicologica, carenza di sintonizzazione affettiva) che si sono stabilmente ripetuti nel tempo, compresa l’adolescenza. 

La consistenza e il grado dell’esperienza traumatica dipendono dalla vulnerabilità e dalla resilienza individuale e, pertanto, la reazione psichica ai traumi è prevalentemente soggettiva. 

Possiamo infatti considerare il trauma da due punti di vista diversi ma complementari: l’aspetto oggettivo e quello soggettivo. Se consideriamo l’aspetto oggettivo del trauma, valutiamo prevalentemente la drammaticità intrinseca all’evento: esistono eventi come l’abuso o la tortura, per esempio, che sono esperienze dolorose e insostenibili per chiunque le subisce, con effetti potenzialmente distruttivi, e che si connotano come esperienze oggettivamente traumatiche. Considerando, invece, la dimensione soggettiva, la nostra attenzione si sposta dall’evento al soggetto dell’evento. In questo caso, il modo individuale di elaborare l’esperienza traumatica dal punto di vista emotivo e cognitivo fa una grande differenza. 

L’entità “oggettiva” del trauma, infatti, non spiega come mai persone che sperimentano traumi oggettivamente “minori” rispetto ad altri, possano subire conseguenze psicologiche di portata superiore: ci sono, infatti, individui che tendono a sentirsi subito sopraffatti dagli eventi, ed altri che invece combattono fino all’estremo delle loro forze senza mai smettere di sperare di potercela fare. 


Cos’è quindi che fa sentire gli individui sopraffatti e trasforma un’esperienza stressante in un trauma personale? 

In genere, fino a quando gli individui riescono a immaginare un modo per evitare l’inevitabile, o sentono che c’è qualcuno più forte che si prende cura si loro, sembra che i sistemi psicologici e biologici siano protetti dalla minaccia della sopraffazione. Quando, invece, un individuo non è forte abbastanza da affrontare le minacce esterne e l’ambiente esterno non riesce a portare soccorso, l’incapacità di agire in modo tale da eliminare la minaccia può provocare una reazione da stress acuto. Di conseguenza, è l’intensità della reazione emotiva – determinata dal significato attribuito all’evento più che dall’evento in sé – che alla fine spiega le eventuali conseguenze psicopatologiche di un’esperienza potenzialmente traumatica. 


Premesso questo, passiamo ora alla relazione tra trauma e memoria. Un trauma può infatti condurre a esasperate esperienze di ricordo o di oblio: le esperienze di eventi terrificanti possono essere ricordate con estrema vivezza, così come possono essere resistenti all’integrazione nella memoria. In alcuni casi invece si assiste alla combinazione di entrambi i fenomeni. Da cosa dipende? 

Da un punto di vista psicologico, oggi si ritiene che la nostra mente sia una sintesi esperienziale e concettuale di una realtà costituita da una pluralità di processi mentali, operanti a diversi livelli, organizzati gerarchicamente e coordinati attraverso una modalità di processamento cosciente superiore. Gli studi sulla neurofisiologia, infatti, mostrano come le informazioni vengono processate in forma frammentata in sistemi biologici separati ma interagenti. 

In contrapposizione alla psiche complessa e fisiologicamente scindibile, è presente un aspetto unificante, un processo innato tendente a fare di un individuo un’unità separata e completa, un centro organizzatore orientato verso la totalità. La tensione tra la tendenza alla dissociazione e la costruzione di un’organizzazione unitaria è alla base della struttura dinamica della psiche. 

I recenti studi sulla memoria hanno dimostrato l’esistenza in ogni individuo di un notevole grado di complessità nei sistemi mnemonici. La maggior parte delle funzioni della memoria hanno luogo al di fuori della consapevolezza individuale e ciascuna sembra operare con un relativo grado di indipendenza dalle altre.

Come scrive Bergson, la memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. non c'è registro non c'è cassetto; anzi a rigor di termini non si può parlare di essa come di una "facoltà": giacché una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l'accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt'intero in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori.


La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte di passato nell'inconsciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l'azione che si prepara, compiere un lavoro utile. I due principali sistemi mnemonici possono essere riassunti brevemente come segue: 

Memoria dichiarativa (o esplicita): riguarda le informazioni comunicabili e che vengono richiamate consciamente. 
Memoria procedurale (o implicita): riguarda le informazioni relative a comportamenti automatici. 

La memoria dichiarativa può essere ulteriormente suddivisa in memoria episodica, che riguarda le informazioni specifiche a un contesto particolare, come un momento e un luogo, e memoria semantica, che riguarda idee e affermazioni indipendenti da uno specifico episodio. Per fare degli esempi, il ricordo della trama di un romanzo o di un film riguarda la memoria episodica, mentre ricordarsi il nome dei personaggi dello stesso romanzo o film riguarda la memoria semantica. La memoria autobiografica è un caso particolare della memoria episodica, che riguarda episodi realmente avvenuti al soggetto stesso.
La memoria procedurale riguarda invece soprattutto le abilità motorie e fonetiche, che vengono apprese con il semplice esercizio e utilizzate senza controllo attentivo volontario. 

Spesso capita che, quando gli individui si sentono minacciati, sperimentano una contrazione significativa della coscienza e rimangono concentrati solo sui dettagli percettivi centrali. Un’emozione violenta può interferire con il normale processo di elaborazione dell’informazione e con la sua memorizzazione nella memoria narrativa esplicita (dichiarativa). Tutti i ricercatori evidenziano come, in condizioni di forte sollecitazione, la memoria esplicita può fallire. L’individuo traumatizzato può sprofondare così in un “terrore muto” che impedisce di descrivere a parole ciò che è accaduto. Tuttavia anche se l’individuo è incapace di articolare una narrazione coerente dell’incidente, non è detto che vi sia un’interferenza con la memoria implicita: l’individuo può cioè “conoscere” la valenza emotiva di un determinato stimolo ed essere consapevole delle percezioni associate, senza però essere capace di esprimere chiaramente le ragioni per cui si sente o si comporta in un determinato modo. I ricordi possono essere così dissociati dalla coscienza ed essere invece memorizzati come percezioni sensoriali ad un livello implicito. Con il perdurare di questa “dissociazione”, le tracce dei ricordi continuano a emergere in forma di percezioni terrificanti, ossessioni, preoccupazioni e riesperienze somatiche, o come reazioni ansiose. 

La maggior parte dei ricercatori infatti sostiene che l’essenza della traumatizzazione sta nell’impossibilità, per alcune persone, di integrare l’esperienza traumatica nella propria coscienza ordinaria. 


In che modo quindi il ricordo di un trauma può essere “dissociato” dalla coscienza ordinaria? 

I processi associativi, che costituiscono la rete connettiva della nostra mente, di per sé non sono rigidi, ma si sviluppano, si modificano, si integrano, si organizzano gerarchicamente, nell'interazione con la realtà esperienziale e sono gli elementi che caratterizzano gli schemi personali interpretativi della realtà, dai più semplici ai più complessi. 

Da questo punto di vista, la memoria, in quanto funzione della personalità vivente, può essere intesa come capacità di organizzare e ricostruire le esperienze e le impressioni passate, al servizio dei bisogni, delle paure, e degli interessi del presente. Ciò che un individuo ricorda dipende dai suoi schemi mentali: una volta che un evento o un particolare frammento di informazione viene assimilato negli schemi mentali di un individuo, non sarà più disponibile come entità separata,immutabile, ma verrà deformato, sia dalle esperienze associate, sia dallo stato emotivo dell’individuo al momento del ricordo. 

Dal momento che i processi mentali rappresentano una sorta di entità unitaria, la dissociazione può essere considerata come una proprietà della mente che può rompere questa unità. In generale è possibile affermare che la dissociazione implica la disconnessione e la non integrazione di due o più processi mentali. Questa modalità di elaborare l'informazione può funzionare autonomamente come meccanismo di difesa in risposta allo stress. 


In caso di trauma, il ruolo della dissociazione come meccanismo di difesa ha a che fare con una compartimentazione dell’esperienza: gli elementi del trauma possono non venire assimilati in un insieme unitario ed in un senso del sé integrato (e pertanto sono esclusi dalla memoria autobiografica). In questo modo la dissociazione sembra essere il fattore cruciale che determina l’eventuale adattamento all’esperienza traumatica. In relazione al trauma, la dissociazione sta ad indicare un modo di elaborare l'informazione e viene oggi utilizzata per riferirsi a tre processi mentali diversi ma correlati: 


- La dissociazione primaria. Molti bambini e adulti sono incapaci, se posti di fronte a una minaccia opprimente, di integrare nella coscienza la totalità di ciò che sta accadendo loro. Alcuni componenti sensoriali ed emotivi dell’evento possono non essere assimilati nella memoria e nell’identità individuale, rimanendo isolati dalla coscienza ordinaria. L’esperienza traumatica si scinde nei suoi componenti somatosensoriali isolati, che non vengono integrati in un racconto personale. Questa frammentazione è accompagnata da stati dell’Io distinti dal normale stato di coscienza. Si tratta della dissociazione caratteristica del disturbo post-traumatico da stress i cui sintomi più drammatici – ricordi intrusivi fortemente angoscianti, incubi e flashback – sono espressione dei ricordi traumatici.
- La dissociazione secondaria. Dal momento che un individuo cade in uno stato mentale traumatico (dissociato), può verificarsi in lui un ulteriore disintegrazione di elementi dell’esperienza personale. Spesso negli individui traumatizzati come le vittime di incesto, i sopravvissuti a incidenti automobilisticie i soldati sul fronte, è stata descritta una dissociazione tra l’Io che osserva e l’Io che esperisce. Questi soggetti raccontano di avere abbandonato con la mente i loro corpi al momento del trauma, osservando ciò che accadeva da lontano. Queste tecniche di distanziamento, di dissociazione secondaria, permettono agli individui di osservare la propria esperienza traumatica come spettatori e di limitare dunque la sofferenza e lo stress, rimanendo così al riparo dalla piena consapevolezza dell’impatto dell’evento. In breve, se la dissociazione primaria riduce negli individui la consapevolezza della realtà dell’esperienza traumatica e permette loro di vivere temporaneamente come se niente fosse accaduto, la dissociazione secondaria allontana gli individui dalle sensazioni e dalle emozioni legate al trauma, in pratica anestetizzandoli. La dissociazione secondaria (detta anche “peritraumatica”) al momento del trauma sembra essere anche significativamente correlata con un successivo sviluppo di un Disturbo post-traumatico da stress.
- Dissociazione terziaria. Se gli individui sviluppano stati dell’Io distinti in cui dare spazio all’esperienza traumatica, costituiti da identità complesse, caratterizzate da specifici modelli cognitivi, affettivi e comportamentali, parliamo allora di “dissociazione terziaria”. Alcuni stati dell’Io possono contenere il dolore, la paura e la rabbia relative a particolari esperienze traumatiche, mentre altri stati restano inconsapevoli del trauma e dei sentimenti relativi, continuando a eseguire le funzioni ordinarie della vita quotidiana. Esempi di questo tipo di dissociazione sono rappresentati dai frammenti (alter) di identità dissociata multipla tipici del Disturbo Dissociativo dell’Identità – DID. Alcuni di questi alter sperimentano aspetti diversi di uno o più incidenti traumatici, mentre altri rimangono inconsapevoli di queste esperienze insopportabili. Nei limiti concessi dalla loro amnesia dissociativa, questi pazienti raccontano di abusi sessuali, fisici e psicologici, subiti in forma cronica fin dalla tenera età. 


La dissociazione, sebbene durante un’esperienza traumatica possa limitare l’impatto della sofferenza e dello stress, è priva di un valore adattivo a lungo termine, anche se spesso rimane un modo per fronteggiare le conseguenze dello stress. È importante sottolineare infatti che la persistenza della dissociazione tende a consolidare il potere dei ricordi non coscienti sul comportamento ordinario. In alcuni casi infatti chi è stato vittima di un’esperienza traumatica sviluppa la tendenza a dissociarsi di fronte allo stress: queste persone diventano così emotivamente represse e non riescono a provare una gamma completa di affetti all’interno di ciò che oggi chiamiamo lo stesso stato dell’Io – come nel caso del Disturbo Dissociato dell’Identità, in cui si sviluppano idee fisse entro identità totalmente separate (amnesiche l’una dell’altra). 


Un altro aspetto rilevante dal punto di vista psicoterapeutico è che finché rimane attiva la dissociazione del ricordo traumatico, molta gente con traumi pregressi può vivere abbastanza bene fino a quando non vengono stimolate le sensazioni legate ai ricordi traumatici. Se sono esposte a specifici stimoli emotivi o sensoriali, queste persone possono percepire o intraprendere azioni come se stessero nuovamente esperendo il trauma. E non è necessario che questi stimoli siano terrificanti: qualunque sentimento o sensazione legata ad una particolare esperienza traumatica può fare da innesco nel richiamare le sensazioni associate all’esperienza (nel caso di un abuso sessuale, ad esempio, la paura, il desiderio, l’intimità o l’eccitazione sessuale sono tutti stimoli potenzialmente idonei). 


Alla luce di quanto finora esposto, ci si può chiedere: che valore ha il recupero del ricordo di un trauma dal punto di vista psicoterapeutico? 

Per rispondere a questa domanda farò riferimento a due teorie della mente e del trauma che, seppur sotto certi aspetti simili, su questo aspetto sono diametralmente opposte: quella di Janet e quella psicoanalitica di Freud. 

A partire dalle sue indagini ipnotiche sui sintomi isterici multipli della celebre paziente Anna O., Freud e Breuer (1895) scoprirono che una rievocazione vivida degli eventi traumatici, associata ai relativi stati d’animo, portava alla risoluzione dei sintomi della paziente. La tecnica di Breuer consisteva nel portare alla coscienza i ricordi traumatici patogeni, verbalizzare le emozioni angosciose legate a quegli eventi e liberare le emozioni in un processo che Breuer e Freud definirono “catarsi” (abreazione). Secondo la prospettiva psicoanalitica, i ricordi traumatici vengono espulsi attivamente dalla coscienza da meccanismi di difesa dell’Io, che proteggono l’individuo da ricordi dolorosi. 

Secondo il punto di vista di Janet, invece, gli individui che si dissociano, lo fanno non a causa di una repressione attiva, ma piuttosto perché le loro funzioni mentali sono indebolite da “emozioni violente” che danneggiano la capacità di assimilare i contenuti mentali. L’individuo traumatizzato è cioè incapace di integrare i ricordi del trauma nella coscienza personale. Come molti specialisti contemporanei che curano i disturbi dissociativi, Janet riteneva che l’abreazione in quanto tale non fosse curativa. L’obiettivo da raggiungere deve essere quindi il controllo della dissociazione e l’integrazione dell’esperienza traumatica. 

Durante e subito dopo la prima guerra mondiale, gli psichiatri britannici che curavano le vittime della guerra intrapresero una lunga discussione sulla natura repressa o dissociata dei ricordi traumatici e quindi sul valore terapeutico dell’abreazione opposta all’integrazione dei ricordi dissociati nella consapevolezza individuale. Alla discussione partecipò anche C.G.Jung sostenendo l’inefficacia terapeutica della liberazione dell’emozione in eccesso, e riconobbe che l’abreazione non solo era inutile, ma spesso effettivamente dannosa. Come disse Jung “una ripetizione del momento traumatico può eliminare la dissociazione nevrotica soltanto quando la personalità conscia del paziente risulti così rafforzata dalla relazione con il terapeuta che il paziente può riportare coscientemente il complesso autonomo sotto il controllo della volontà”. 

A prescindere dalle divergenze teoriche, sembra comunque chiaro che laddove vi sia una compromissione dei processi integrativi della memoria e della coscienza, è da attendersi che la psicoterapia miri al ripristino della continuità di tali funzioni di integrazione. 

L’ultima questione rimasta in sospeso ha quindi a che fare sull’utilità dell’ipnosi per favorire questo processo di integrazione. 

Recenti teorie, convalidate empiricamente, evidenziano come la dissociazione conseguente a eventi traumatici è assimilabile ad una sorta di trance ipnotica spontanea, automaticamente auto-indotta nella vittima del trauma. L’ipnosi, d’altra parte, è un caso particolare di dissociazione: è possibile affermare che non c’è trance ipnotica senza un certo grado di dissociazione. Proprio per questo l’ipnosi, all’interno di un percorso psicoterapeutico, può facilitare il trattamento dei disturbi conseguenti ad un trauma in modi diversi. Rimaniamo comunque focalizzati sull’aspetto della memoria del trauma. 

La letteratura sull’argomento evidenzia come l’ipnosi non costituisca di certo un approccio originale al problema (dal momento che è il più antico), e rappresenta probabilmente il modo più efficace per consentire al paziente di rivisitare il trauma senza sentirsi annichilito. Nel particolare l'ipnosi consente di: 

- recuperare ricordi traumatici
- ristabilire il collegamento tra uno stato emotivo incongruo e il ricordo recuperato
- trasformare i ricordi traumatici 

Pur senza negare la veridicità di queste tre affermazioni, quanto è opportuno sottolineare è la delicatezza e la complessità del processo che porta al recupero ed all’integrazione dei ricordi nella coscienza. I ricordi traumatici vengono dissociati e sono stati dimenticati a causa delle terribili emozioni che suscitano: la semplice evocazione dei ricordi traumatici in ipnosi, senza operare alcun tipo di trasformazione o cambiamento, può innescare nuovamente l’esperienza traumatica rivissuta in maniera identica alla precedente. 

Se è vero che l’ipnosi può costituire un mezzo di esposizione terapeutica diretta che consente al ricordo traumatico di divenire ragionevolmente accessibile, è anche vero che il “semplice” recupero del ricordo non è di per sé terapeutico. Il recupero del ricordo traumatico in ipnosi non si limita ad essere un atto “ripetitivo” del trauma, ma creativo e trasformativo.

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